Nuovi modi di comunicare, linguaggi 3.0 ed educazione all’uso della parola ragionata tra emoticon e abbreviazioni. Intervista alla sociolinguista e ricercatrice dell’Università di Firenze Vera Gheno, che ci spiega quando sia importante una “dieta variegata”… Anche nell’uso della parola
di Barbara Gabbrielli
“Mamma, ma non lo sai che le emoji sono superate?”. Domanda retorica. Certo che la mamma non lo sa. A lei piace tanto mettere faccine sorridenti e cuori come segni di interpunzione, ma adesso si sente improvvisamente fuori moda. Non sia mai. Il mondo va veloce, spinto dal progresso del digitale. Sono proprio i nostri figli a metterci davanti all’evidenza. A un certo punto smettiamo di essere noi quelli che spiegano come si fa e ci ritroviamo dalla parte di chi ascolta a bocca aperta. La tecnologia spesso guida e determina le nostre relazioni, anche tra le pareti di casa e a scuola. Le sue regole hanno invaso la scrittura, abbassato i livelli di attenzione, rivoluzionato i tempi destinati al dialogo o al gioco, e cambiato radicalmente la comunicazione, rendendola sempre meno diretta e sempre più a distanza.
Che c’è di buono in tutto questo? “Che non abbiamo mai scritto e comunicato così tanto” risponde Vera Gheno, sociolinguista e ricercatrice dell’Università di Firenze. Qual è il problema? “Che le nuove forme di comunicazione digitale stanno cambiando il nostro orizzonte cognitivo e quello dei nostri figli, aumentano la distanza tra generazioni e omogeneizzano la nostra capacità di esprimerci” aggiunge. “Diciamo che il digitale sta al linguaggio come il McDonald’s sta al cibo, è il fast food della lingua. È gustoso ma nutre poco, si consuma in fretta senza pensarci troppo e, soprattutto, può creare dipendenza”.
Daremmo hamburger e patatine fritte a pranzo e a cena ai nostri bambini? Di sicuro no. Eppure a tutti è capitato di metterli davanti al tablet per cenare in pace, di registrare un vocale per mandare un saluto ai nonni invece di andarli a trovare, di mettere in loop la canzoncina delle tabelline per fargliele memorizzare anziché ripassarle insieme. Così tutto è più semplice, perché fare sforzi in più? “Non ci dobbiamo colpevolizzare. In fondo, siamo le prime generazioni di genitori digitali, stiamo imparando anche noi” tranquillizza Gheno. “È spesso molto faticoso e frustrante gestire il rapporto con gli schermi, ma se vogliamo nutrire il linguaggio e la capacità di esprimersi dei nostri figli, dovremmo assicurare loro una “dieta” variegata”.
Quello che manca sempre di più nella comunicazione genitori-figli di oggi è l’interazione verbale e fisica. Lo scambio e il feedback che se ne ricava sono fondamentali nell’età evolutiva, perché è da lì che nasce la capacità di usare le parole e di elaborare pensieri, oltre che di mettere in atto comportamenti. Davanti a un tablet, i bambini si divertono, si calmano, possono fare anche giochi istruttivi o accedere a informazioni utili, ma non ricevono lo stesso vantaggio cognitivo che un momento di confronto o di apprendimento vero, vissuto con un genitore o con un amico, regalerebbe loro. “Sappiamo per esempio che alcune conoscenze linguistiche sono innate, ma sono destinate a rimanere sopite senza un’interazione con il mondo circostante” spiega la linguista. “Insomma, l’essere umano è un animale programmato per comunicare e apprendere in maniera “live”. E il tablet non è un insegnante o un babysitter”.
Chat, messaggi stringati, abbreviazioni possono così impoverire il nostro lessico. Di più. Con lo smartphone sempre acceso, siamo bombardati da un flusso continuo di notifiche che distolgono la nostra attenzione da ogni qualsiasi relazione “in presenza”, mandando in crisi ogni tentativo di dialogo. “In tutto questo, i figli ci guardano, siamo noi il primo esempio sul quale modellano i comportamenti” dice Gheno. “Anche quando sembra che non stiano guardando o ascoltando, stanno facendo esperienza e acquisendo competenze attraverso i nostri comportamenti e il linguaggio che utilizziamo”. I figli, mai dimenticarlo, apprendono prima di tutto da noi. La loro capacità futura di comunicare con gli altri per far capire chi sono e che cosa vogliono, e per decodificare la realtà che li circonda, dipende solo dall’esperienza, dalla qualità dei dialoghi a cui vengono esposti fin da piccoli e alle opportunità che hanno di esprimersi realmente, non attraverso una tastiera.
Nella comunicazione genitori-figli di oggi c’è un altro grande assente: la voglia di fare domande, di addentrarsi in un mondo che ci sfugge e ci appare molto complesso. Spesso preferiamo non approfondire, non vedere. Prendiamo il caso del recente fenomeno di “Squid game”, la serie Netflix a base di violenze fisiche e torture psicologiche. Moltissimi bambini e preadolescenti l’hanno vista o sono venuti a contatto con immagini, contenuti e modalità legati a questa serie. Quando gli adulti hanno iniziato ad accorgersene, era già troppo tardi, e proibirne la visione è stato solo un tentativo inutile di correre ai ripari. “I bambini sono curiosi, elastici, non stereotipati, inventano neologismi e sono attratti dalle potenzialità offerte dalla tecnologia.
Spesso il nostro mondo e il loro smettono di dialogare perché come adulti annaspiamo, facciamo fatica a capire e mettiamo in atto misure difensive antidiluviane. Arretriamo davanti a un linguaggio che non capiamo e a strumenti di cui non abbiamo il controllo, per poi magari scoprire che nostro figlio è un gamer con migliaia di follower” conclude Gheno. “La tecnologia non è necessariamente una perdita, ma prima che renda incolmabile la distanza generazionale, allora, meglio riaccendere gli interruttori del dialogo, magari anche della discussione e procedere con una dieta linguistica variegata, a base di giochi, esperienze e confronto”.